Alle 7:20 del 19 marzo 1994 un killer assassinava Giuseppe Diana nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe.
Un omicidio secondo i canoni della ritualità camorristica. Due colpi alla testa, un colpo al volto, uno alla mano e uno al collo, per mettere a tacere per sempre un uomo che portava avanti la lotta alla paura.
Chi era Don Peppe Diana
Don Peppe Diana a Casal di Principe ci era nato, il 4 luglio del 1958. Dopo una formazione al seminario di Aversa con laurea in Teologia Biblica si laurea in Filosofia alla Federico II di Napoli per poi essere ordinato sacerdote nel 1982. Parallelamente, Peppe Diana era entrato a far parte di AGESCI (Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani).
L’impegno di Peppe contro la mafia è fatto sì di quel piccolo lavoro quotidiano a stretto contatto con le persone e con il quartiere ma anche di cortei e documenti di condanna.

L’attività di Don Peppe e l’omicidio
Nel 1983, dopo un triplice omicidio di camorra, Don Peppe è tra gli organizzatori di una coraggiosa marcia di solidarietà.
Nel 1988 dopo l’assalto alla caserma dei carabinieri di San Cipriano scrive con altri il documento “Liberiamo il futuro“. Questo documento da avvio a un coordinamento di realtà politiche, civili e sociali nella zona di Aversa contro le mafie.
Don Peppe va a sensibilizzare nelle scuole. Scrive tanto e mette allo scoperto le differenze tra la dottrina cristiana e la visione distorta che ne hanno i camorristi.
Le sue posizioni portano la camorra a designare Don Peppe come vittima “ideale” per l’avvio di una guerra di mafia. Un conflitto che sarebbe scoppiato tra i casalesi e gli uomini di Nunzio de Falco, condannato come mandante dell’omicidio.
Secondo la Cassazione:
Quella morte appariva come un gesto simbolico e dirompente che avrebbe dovuto accendere la guerra di mafia tra il clan dei casalesi e quello facente capo a De Falco. Una morte simbolica che contemporaneamente costituiva una vendetta personale di Quadrano e un obiettivo per l’intero gruppo facente capo a De Falco, un’affermazione di potere nel territorio di pertinenza degli Schiavone.
La giustizia condannò invece Giuseppe Quadrano, poi pentito, come autore materiale dell’assassinio. Le forze dell’ordine individuarono il killer grazie alla segnalazione di Augusto Di Meo, amico di Don Peppe.
La macchina del fango
Subito dopo l’omicidio alcune testate giornalistiche cominciarono a infangare la vittima, secondo la prassi di numerosi omicidi di stampo mafioso. Ad esempio, il Corriere di Caserta titolò “Don Diana era un camorrista“.
Questo tentativo di screditare la vittima va letto come una precisa strategia per mantenere circoscritto l’eco degli omicidi di mafia, e per evitare il diffondersi di un senso di resistenza civile contro queste organizzazioni.
Ovviamente l’impegno civile non basta. Serve la presenza forte dello Stato e dell’autorità pubblica. Non solo per quanto riguarda le operazioni di polizia e di messa in sicurezza del territorio ma anche e soprattutto per dare opportunità di riscatto a questi territori.
In interi quartieri delle città del sud Italia la mafia prospera di pari passo con il disagio economico e sociale.
L’inefficienza e l’assenza di politiche pubbliche, insieme all’infiltrazione mafiosa nelle stesse istituzioni, generano un circolo vizioso che porta alle mafie nuove leve e rende complesso isolare i malavitosi.
Don Peppe e il suo sacrificio, come quelli di tante vittime di mafia di ogni estrazione sociale e politica come Peppino Impastato, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, non potranno mai essere ripagati finché non verranno adottate politiche di recupero a tutto tondo dei quartieri difficili dove la mafia è più forte.