Con il suicidio di Tiziana Cantone del 13 settembre 2016 la questione del revenge porn fa il suo ingresso nel mainstream del dibattito pubblico nazionale.
Il caso della trentenne campana si era concluso nel peggiore dei modi, rendendo impossibile non discutere e analizzare un fenomeno che tuttavia nella gran parte dei casi resta sommerso e ha ripercussioni forse più impercettibili, ma di certo non meno gravi per chi le subisce.
In quanti abbiamo avuto a che fare durante i nostri anni scolastici con episodi di divulgazione di immagini e video di qualche compagna o compagno di scuola? Talvolta si trattava di atti di bullismo, talvolta di immagini e video intimi, che hanno esposto le persone ritratte a umiliazione e invasione della sfera più personale di sé.
Perché parlare di questi episodi in un post sul revenge porn? Perché se da un lato si conferma la tesi che è proprio la scuola con il suo ruolo educativo che può e deve contribuire alla prevenzione di questi episodi nei giovani che saranno gli adulti di domani, dall’altro è il mondo della scuola che nella lotta a quelli che sono veri e propri abusi telematici è arrivato prima nell’adottare misure che perlomeno riconoscono e puniscono la divulgazione di immagini e video senza consenso.
Revenge porn e cyberbullismo: qualcosa si muove (poco)
Nel 2017 la legge sul cyberbullismo definisce i confini concettuali del fenomeno della divulgazione di materiale online allo scopo di offendere, umiliare, mettere in ridicolo. La legge prevede un ammonimento o – dietro denuncia – il rischio di incorrere in una serie di reati come quello di ingiuria (ora depenalizzato), diffamazione o minaccia.
Si tratta di un primo passo avanti, anche se ovviamente il revenge porn è cosa ben più specifica. Inoltre, come riportato da uno studio del 2017 del Cyber Civil Rights Initiative, per più del 70% dei casi le vittime sono maggiorenni e quindi non rientrano tra i casi che potrebbero beneficiare della legge sul cyberbullismo.
Nel 2016 la deputata Sandra Savino presenta una prima bozza di testo contro il reato specifico di revenge porn, presto affossata, e bisognerà attendere il 2019 per l’approvazione di un testo che cerchi di porre un freno al fenomeno.
In questo lasso di tempo e anche dopo l’adozione del testo gli episodi di revenge porn si moltiplicano e si sistematizzano. Sono tristemente noti gli articoli di Wired.it sui gruppi Telegram dedicati allo scambio non consensuale di foto e video di partner, ex partner o addirittura familiari, spesso accompagnati dall’indicazione del domicilio o di altri dettagli che permettano l’identificazione della persona ritratta.
La legge prevede pene da uno a sei anni e multe da cinquemila a quindicimila euro con aggravanti in caso di fatti commessi da un coniuge da un ex e altre situazioni simili, ma è anche evidente come riempire un vuoto normativo non sia sufficiente a far cessare un fenomeno.
La legge da sola non basta contro il revenge porn
In primo luogo perché scandagliare il web e individuare questi abusi è estremamente complesso: spesso la vittima non sa che le sue immagini sono divulgate in rete, e lo strumento normativo a volte manca di efficacia. In un suo intervento del giugno 2019 il garante della privacy Antonio Moro propone ad esempio una estensione dell’ammonimento previsto dalla legge contro il cyberbullismo a quella contro il revenge porn, ma si tratta comunque di tentativi di ottimizzare le il controllo e la repressione del fenomeno, e non di individuarne l’origine.
L’origine delle pratiche di revenge porn, soprattutto per quella (larghissima) maggioranza di episodi in cui le vittime sono donne, è ancora una volta da ricercare in quella pratica tutta maschile della sopraffazione mediante l’oggettivazione del corpo femminile.
La diffusione di immagini e video intimi punta ad annientare la vittima ed esporla, nuda, all’umiliazione di una comunità. Una pratica che – se pensiamo ad esempio a un episodio che vede protagonista un ex partner – assume tratti animaleschi, tribali, primitivi, rievocando un mondo dove l’unica legge valida è quella del più forte e dove lo spazio riservato alla donna è quello accanto, anzi leggermente dietro, all’uomo. Dove smarcarsi può essere considerato alla pari di un “furto” perché la donna – oggetto – è proprietà dell’uomo e in quanto tale non può e non deve allontanarsi, pena l’umiliazione pubblica.
Contro il revenge porn serve l’impegno degli uomini
Il revenge porn è esattamente questo, ed è reso possibile da quel meccanismo tipico del mondo digitale che permette di avvicinare persone distanti tra loro mantenendo una barriera, barriera che spesso contribuisce a far perdere il senso della realtà. Così diffondere immagini e foto di nudo o atti sessuali ed esporli al pubblico diventa grave ma non troppo, alimentando anche quella fetta di popolazione – tutta maschile – che tende a minimizzare il revenge porn non cogliendone né i danni che può comportare per la vittima né la reale motivazione che spinge le persone a commettere questo reato, la volontà di sopraffazione e umiliazione delle donne-oggetto.
A conferma di questa tesi arriva anche la voce di chi si scaglia contro il revenge porn, magari chiedendo pure a voce grossa la castrazione chimica, perché potrebbe essere tua sorella (o altro parente / conoscente). Per queste persone il reato diventa grave e percepibile solo se letto in relazione a una vittima conosciuta, che è “di proprietà”.
Senza contare poi il fronte del “se l’è cercata”, sempre abbondante e sempre pronto a ricordarci come ancora oggi, dopo secoli di lotte, la questione femminile sia ancora tutta aperta.
Ragazzi, dobbiamo essere noi ad attivarci in questo senso. La lotta agli episodi di revenge porn è un pezzo di una battaglia culturale molto ampia in cui la posta in gioco è la presa di consapevolezza da parte degli uomini che niente ci autorizza a ritenere la donna una estensione delle nostre vite e che ogni forma di discriminazione, violenza o sopruso attuato su una donna in quanto donna, non è che la perpetuazione di una atteggiamento patriarcale che vede l’uomo al di sopra della donna.
Ognuno di noi può fare la sua parte in tanti contesti diversi.
La possiamo fare quando negli spogliatoi della palestra ci rendiamo conto che i nostri compagni di allenamento si scambiano foto delle fidanzate ignare, lo possiamo fare quando al lavoro approfittiamo di quella possibilità che invece è preclusa alla nostra collega donna che magari se lo merita più di noi, lo possiamo fare riflettendo sui tanti insulti e intercalare che utilizziamo ogni giorno: parole per riempire il discorso, ma che hanno un significato che alimenta questo sistema.
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Immagine in evidenza: Foto di Thomas Ulrich da Pixabay