Con la vittoria in Pennsylvania annunciata nel tardo pomeriggio di ieri, è ormai matematico che Joe Biden sarà il quarantaseiesimo presidente degli USA con Kamala Harris come VP. Certo non siamo scafati esperti di politica e di analisi del voto, ma questi giorni e notti di concitata attesa e maratone televisive con i vari stati che via via venivano chiamati e la mappa che si colorava di rosso o blu ci hanno fatto riflettere.
Il trumpismo non è finito
Innanzitutto, la rappresentazione fatta dai media europei e italiani di Trump e del suo elettorato è stata spesso semplicistica, incentrata su gaffe, tweet e dichiarazioni sopra le righe. La realtà è che una fetta di Stati Uniti vota convintamente per Trump, e non si tratta certo di soli bianchi razzisti che imbracciano un fucile dalla loro sedia a dondolo in un backporch di un ranch del Texas.
Sono un eterogeneo complesso che va dai ricchi imprenditori newyorkesi che hanno invitato per anni “The Donald” ai loro gala esclusivi fino all’America profonda delle aree rurali. Un’America che ha paura di perdere non tanto la propria ricchezza quanto l’identità e la possibilità di contare qualcosa. Un’America spaventata dai grandi cambiamenti demografici e dagli effetti della globalizzazione, secondo una dinamica che contrappone aree urbane ed “entroterra”. Una spaccatura che richiama quella del Regno Unito dopo il voto sulla Brexit o le elezioni politiche del 2018 in Italia.

Cosa resterà di questi quattro anni
Il trumpismo non è stato un fenomeno macchiettistico e non sarà sufficiente l’elezione di Joe Biden a metabolizzarlo. I quattro anni di Donald Trump hanno messo a nudo le debolezze del sistema politico statunitense. Sono debolezze che condivide con buona parte dei sistemi liberali e democratici della nazioni occidentali. Sistemi vulnerabili alla corruzione, ai personalismi, agli abusi. La presidenza Trump ha agito alla luce del sole là dove molti altri avrebbero agito nell’ombra per coprire la vergogna, e in questo senso ha messo a nudo il marcio. Marcio che non emergeva in modo così preponderante dai tempi di Nixon, ma probabilmente sempre presente nei gangli delle democrazie liberali.
Per non parlare del voto, di per sé. L’uscita di scena del tycoon è miserabile, lacerante, meschina. Possiamo ridere delle ultime gaffe dello staff che sbaglia la prenotazione della location per il discorso finale e si ritrova in un parcheggio di fianco a un sexy shop, certo. Ma non c’è da ridere quando il presidente non vuole riconoscere il risultato dell’avversario e grida ai brogli. Una manovra pianificata, con la contestazione del voto via posta (negli USA esiste dalla Guerra Civile) che era partita già da molto prima delle elezioni.
In un certo senso l’indegna figura del presidente di fronte alla sconfitta lo accomuna a un qualsiasi caudillo dell’America latina. Buffo perché The Donald ha offeso l’America del Sud per tutta la sua presidenza. Ma tra muri e lotta all’immigrazione non si rendeva conto di somigliare sempre più ai peggiori modelli che quell’America poteva offrire. Leader machisti, corrotti, prepotenti, intolleranti di fronte alla sconfitta e in questo caso sì, abituati ai brogli. Ricordate le manovre per silurare Morales?

Joe Biden e un’America divisa
E poi c’è Biden, il nuovo presidente degli Stati Uniti. Una vittoria netta quella del candidato dem, che però deve fare i conti con un’America lacerata e in piena crisi pandemica. A livello elettorale, Joe può vantare un enorme successo nelle città, la riconquista del “blue wall” e la sua capacità di dialogo con la middle class bianca, i “blue collar” e i sindacati.
Poi ci sono i punti deboli, come il risultato Dem in Florida. In alcune contee a forte maggioranza ispanica il crollo dell’asinello è stato evidente e il tentativo della campagna repubblicana di dipingere Joe come un socialista estremista e renderlo inviso alla comunità cubana è pienamente riuscito. Stranezze degli States, visto che pochi ritrarrebbero Joe Biden come un novello Che Guevara. Un fattore da tenere comunque in grande considerazione per due ragioni. Il neopresidente è cattolico e la presenza della minoranza ispanica negli States crescerà sempre più, aumentandone il peso elettorale.
L’impatto della pandemia e il voto per posta
L’impatto della pandemia è epocale. E forse in parte ha compensato una certa debolezza di Biden, che ha cercato di costruire la sua corsa puntando molto sul “votatemi perché non accada più come con lui“. Ma è anche per questo le aspettative sono alte. Joe si troverà a gestire la pandemia e poi le altre questioni. Il clima, ad esempio, e i rapporti geopolitici con la Cina. Non sarà facile però, visto anche un Senato il cui “colore” di maggioranza sembra sarà deciso soltanto a gennaio dai ballottaggi in Georgia.
Andrà studiato a fondo il ruolo mai così rilevante del voto per posta e una zona su cui puntare la lente è il Midwest. Qui, esattamente come nel 2016, negli stati chiave Michigan e Wisconsin Trump guadagna voti ma non abbastanza, dopo essere stato forse un po’ sottostimato nei sondaggi pre-elettorali.

Joe Biden: è il momento delle decisioni
Joe Biden a scrutinio concluso sarà il presidente più votato di sempre dal popolo statunitense. Sarà eletto dopo una tornata elettorale dall’affluenza record e partita più serrata del previsto con Donald Trump. Il cigno nero, il presidente che nessuno si aspettava nel 2016, il presidente imprevedibile che ha governato la nazione più potente al mondo come avrebbe governato una sua azienda. Un presidente dai toni violenti, che non ha iniziato guerre ma ha esacerbato le tensioni interne, il cui mandato ha segnato nel profondo l’America e il mondo con effetti che rimarranno per molto tempo anche la sua uscita dallo studio ovale.
Joe Biden dovrà ricollocare gli Stati Uniti nel mondo. Dovrà scegliere tra le due filosofie che guidano l’America e stabilire se gli States con lui aspireranno ancora all’egemonia mondiale o continueranno a “guardare” al proprio interno. Dalle sue mosse dipenderanno molti degli equilibri geopolitici mondiali.
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